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Thirty Three & 1/3

 
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Cristiano
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MessaggioInviato: Dom Mar 07, 2004 17:23 pm    Oggetto: Thirty Three & 1/3 Rispondi citando

Dopo ripetuti ascolti, quest'album mi pare ottimo...molte delle canzoni reggono alla prova del tempo e perche' no, della programmazione in radio Laughing !

Molto molto belle le ballate: Beautiful Girl (che risale, come scrittura, al 1969) con un organo Hammond in bella evidenza e un cantato molto dolce, Dear One dedicata a Yogananda ( quasi del tutto acustica e piena di ispirazione) e See Yourself che invece era stata iniziata nel 1967...quest'ultima con un testo ironico e attualissimo che invita a guardare dentro se stessi prima di sputare sentenze sugli altri Wink .

Assolutamente di prim'ordine This Song e Crackerbox Palace , con i relativi video inclusi nel DVD e girati dai Monty Phyton, mentre Woman don't you cry for Me, Learning how to love You e Pure Smokey si staccano un po' dal consueto stile del chitarrista per via dell'arrangiamento tipico della seconda meta' dei 70's.

Un album di carattere, con solide canzoni.

Cristiano
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sexy sadie
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MessaggioInviato: Dom Mar 07, 2004 19:35 pm    Oggetto: Rispondi citando

di Beautiful Girl ho la bella demo acustica presente in Beware of Abcko! Wink

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Cristiano
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MessaggioInviato: Dom Mar 07, 2004 21:06 pm    Oggetto: Rispondi citando

Anche io....ma la versione finita 6 anni piu' tardi , pur rispettosa dell'originale, è senz'altro piu' accattivante, per via dell'arrangiamento!

Cristiano
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MessaggioInviato: Dom Mar 07, 2004 22:56 pm    Oggetto: Rispondi citando

Altro album spettacolare del nostro George! Very Happy
Io ce l'ho da una settimana (ehhrrm, thanx! Rolling Eyes Laughing ) e penso sia veramente bello!!
Anche secondo me le canzoni migliori sono Dear One, See yourself e Beautiful girl, oltre, ovviamente, ai due capolavori: This song e Crackerbox Palace!
Very good!!
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Ludovica
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MessaggioInviato: Lun Mar 08, 2004 22:29 pm    Oggetto: Rispondi citando

Beh...non è male sentirsi dire "Buon Compleanno" che accompagna un regalo come questo disco....Ti è andata benone!!ah ah!!

E' un disco molto tranquillo e rilassante! Anche io "Beautiful Girl" l'ho anche su ABKCO!! Adoro Crackerbox Palace (il video è pazzesco), "This Song" (anche lì il video.... Laughing ), Dear One, Pure Smokey e See Yourself!!

Mi piace molto come album...yesssssss!! Anche lui mi arriva domani in sostituzione dell'altro!! Wink

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MessaggioInviato: Lun Mar 08, 2004 23:19 pm    Oggetto: Rispondi citando

Ludovica ha scritto:
Beh...non è male sentirsi dire "Buon Compleanno" che accompagna un regalo come questo disco....Ti è andata benone!!ah ah!!

Ludovica

Diciamo ke nn mi lamento, dai...
Laughing Laughing
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MessaggioInviato: Lun Mar 08, 2004 23:20 pm    Oggetto: Rispondi citando

Ludovica ha scritto:
Adoro Crackerbox Palace (il video è pazzesco), "This Song" (anche lì il video.... Laughing )
Ludovica

SONO ASSOLUTAMENTE D'ACCORDO!!!
Laughing Wink
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Runofthemill
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MessaggioInviato: Gio Ago 26, 2004 9:59 am    Oggetto: Una recensione di 33 e un terzo Rispondi citando

Scusate se mi intrometto, ma credo che 33&1/3 meriti qualcosa di più...vi includo una piccola recensione comparsa sulla fanzine di George, sperando che vi piaccia!
Ciao
Rik

THIRTY-THREE & 1/3
LA SVOLTA DI GEORGE

Per George Harrison non ha generalmente molto senso parlare di dischi che segnano una svolta nello stile di espressione musicale e nel contenuto, dal momento che ogni disco fa sempre un po’ storia a sé.
Come, infatti, abbiamo cercato di dimostrare per gli album che, fino ad oggi, abbiamo recensiti, ognuno di essi è inevitabilmente rappresentativo di un periodo vissuto da George ed evidenzia uno stile di composizione autonomo.
Eppure, se si volesse trovare un’eccezione a questo principio, questa dovrebbe essere, a mio avviso, individuata proprio in Thirty-Three and 1/3, che, pertanto, a buon diritto può essere identificato come l’album della svolta.
Nei lavori precedenti, infatti, George – forse con l’eccezione di Dark Horse – si era affermato come originalissimo autore del genere mystic rock. Al di là di All Things Must Pass, dove il misticismo è l’oggetto stesso del lavoro, in tutti gli album George aveva – per così dire – colorato di misticismo i propri album, guardando, sotto questa lente colorata, i vari episodi di vita vissuta.
E’ il caso dell’impegno sociale di Living in the Material World, dello smarrimento del proprie sicurezze affettive e musicali di Dark Horse e della autoanalisi “psicoanalitica” sui propri atteggiamenti ed inclinazioni di Extra Texture. Il tema di fondo varia, ma la chiave di lettura resta sempre il misticismo, l’abbandono a Dio, la preghiera.
Con Thirty-Three, invece, si assiste ad un cambio repentino di rotta facilmente desumibile anche prima di ascoltare qualsiasi canzone: la stessa copertina è, in qualche modo, diversa dalle altre. George non inserisce temi religiosi (la simbologia induista di Extra Texture o di Dark Horse) o, come usava fare, di rottura con un’”iconografia” delle copertine rock classica (ad es. i nani di All Things Must Pass, il pranzo cow-boy di Living), ma, anzi, presenta il suo volto grintoso e sicuro mentre indossa gli occhiali del bicentenario americano (cosa che gli costò parecchie critiche) ed intitola il disco usando un efficace gioco di parole, che coniuga la sua età (aveva 33 anni), il rapporto con la musica (33 e 1/3 sono i giri al minuto dei long playing sul piatto) ed il rapporto verso l’induismo (il “3” di 1/3 è disegnato richiamando il simbolo di Om).
Anche all’interno della copertina le foto dei musicisti che giocano e si divertono per i prati di Friar Park (ritratti nel corso delle registrazioni) e la foto di George con il papà in mezzo ai nani di All Things Must Pass ormai a colori e completamente smitizzati, suggeriscono un taglio con i simboli del passato e con le atmosfere eteree, sognanti o cupe ed un ritorno ad una certa essenzialità e, perdonatemi il termine, ad un senso piuttosto “laico” della musica.
George ritorna, insomma, a sé stesso, ma non si presenta nel modo indiretto o simbolico (Dark Horse o Cool Jerk che dir si voglia, l’uomo invecchiato in mezzo ai nani, il finto cow-boy, ecc.) come di chi cerca ancora un’autodefinizione, bensì semplicemente con la propria età, con il proprio volto di tutti i giorni ed in mezzo ai propri affetti familiari ed amicali.
L’ascolto del disco conferma queste considerazioni.
Diciamo innanzitutto che ha stupito e stupisce (se non indigna) pensare che un album oggettivamente bello come Thirty-Three and 1/3 sia rimasto pressoché ignorato e mai ristampato se non in occasione della morte di George.
Come la critica musicale attuale (a differenza dei critici del tempo, ahimè) non cessa di ripetere sulle recensioni riproposte a seguito della ristampa dei lavori di George, questo disco è davvero fruibile, ricco di influenze funky, rock-pop, black e blues, che lo rendono decisamente un lavoro in cui la musica si staglia in primissimo piano ed è davvero ben suonato. Si stacca dall’onirico soul di Extra Texture quanto la luna dal sole ed è lontano anni-luce dalle ballate rock e rock-blues dei lavori ancora precedenti.
Nell’entusiastico ritorno alla Dark Horse, George iniziò a svolgere sessioni regolari ai casalinghi studi FPSHOT con musicisti di livello, quali Tom Scott, Billy Preston, Emil Richards, Gary Wright e Willie Weeks, che riuscirono a creare un suono particolarmente ritmato e vivace, arricchito con sonorità urbane e newyorkesi grazie all’intervento di Richard Tee alle tastiere e del batterista Alvin Taylor.
E se è certamente vero che, anche sotto il profilo dei contenuti delle canzoni, il disco si presenta come un punto di svolta per George, non può negarsi che Thirty-three resta un album in cui la musica mantiene un ruolo decisamente prevalente rispetto ai contenuti.
Consideriamo, come è stato ben detto dalla critica più attenta (Simon Leng), che Thirty-Three segna un’importante tappa di George, principalmente come musicista per l’estrema varietà di arrangiamenti e degli stili, che vanno dal soul, al southern rock, dalla Jazz ballad al funk, fino ad arrivare ai confini del reggae e del synth pop ed è probabilmente vero che se questo disco fosse stato lanciato solo due anni prima, la carriera di George avrebbe preso una piega completamente diversa.
Ed invece, la critica semplicemente ignorò il lavoro, presumibilmente a causa del pregiudizio di Dark Horse…e questo fu un vero peccato! Un’occasione perduta…
E pensare che questo lavoro splendido nacque in un momento particolarmente difficile per George, colpito da un’epatite virale, provato duramente per la sconfitta nella causa intentatagli per plagio in My Sweet Lord e decisamente abbattuto per la rottura traumatica del contratto con la A&M.
Evidentemente, ormai, George era diventato un uomo maturo; tutto il processo di crescita è ben raccontato in Extra Texture ed, in particolare, nel brano This Guitar (Can’t keep from crying, al cui commento, apparso nell’articolo sul numero precedente di Dark Horse, rimando).
Il disco, anche sotto il punto di vista dei contenuti, si presenta come un punto di svolta rispetto al passato: i vari standard tematici che George ha maturato nel corso della passata esperienza vengono riproposti, ma manca un filo unitario di tipo mistico (All things must pass in senso intimistico e Living in the Material World in senso sociale) o personale (Dark Horse per aspetti legati alla vita vissuta ed Extra Texture per l’atteggiamento interiore e psicologico).
In Thirty-Three il misticismo è senz’altro presente, ma non è pervasivo ed il tono non è mai consolatorio od amaro, anzi, da questo disco in poi George intraprenderà quella tendenza caratteristica di includere uno o al massimo due brani per disco dedicati interamente al misticismo e di inserire, al massimo, qualche riferimento qui e là: segno inequivocabile di una raggiunta consapevolezza e maturazione religiosa che non richiede più trattazioni esclusive.
Così, avremo Dear One in Thirty Three, Love comes to everyone in George Harrison Album, Mystical One e Circles in Gone Troppo, Life itself in Somewhere in England, …. Ma non troveremo più un album interamente retto e guidato dal misticismo e dalla religiosità.
Invece, con Thirty Three George intraprese tematiche quotidiane e laiche ed avviò il filone dell’ironia a volte rabbiosa, mentre solo dal George Harrison Album si appassionerà all’altra tematica “moderna” dell’ecologia. C’è, insomma, un George sicuramente più mondano.
Ecco, potremmo dire che George, a partire da questo disco, diventa più laico, più tagliente ed ironico e, da uomo maturo, sviluppa le varie tematiche impostate in precedenza come colui che le ha ormai pienamente assimilate ed è meno interessato a cantare i propri stati psicologici o slanci religiosi: George, avendo ormai consolidato la propria personalità, si dedica alla descrizione di episodi od alla critica sociale guardandoli dietro la lente della propria sensibilità artistica, ormai pienamente elaborata.
Tra l’altro, George, mai come in questo disco, attinge a piene mani da proprie vecchie composizioni rielaborate, segno di una preponderante attenzione verso l’aspetto musicale. In Thirty-Three ben tre pezzi derivano da composizioni tirate fuori dal cassetto (oltre a Woman don’t you cry for me c’è anche Beautiful Girl e See yourself).
E, proprio a tale ultimo riguardo, con riferimento alla canzone di apertura del disco, è lo stesso George a dirci che il brano consisteva in una vecchia composizione iniziata a scrivere a Goeteborg (dove George si trovava con Clapton, Delaney e Bonnie in tournee) nel 1968, principalmente per suonare la slide guitar su un’accordatura in “mi aperto”. La curiosità del brano è che fu probabilmente lo stesso Delaney ad ispirare il titolo così come fu lui stesso a far provare per la prima volta a George il cosiddetto bottle neck, il collo di bottiglia in vetro o metallo che caratterizzerà la tecnica chitarristica di George per tutta la vita.
In ogni caso, il brano musicalmente è interessante, perché si tratta di una geniale canzone basata su un solo accordo (stile armonico che George riprenderà in Cloud Nine) in stile skiffle alla Larry Graham, Stanley Clarke e The Brothers Johnson mentre il testo, se una particolare rilevanza può avere, rappresenta un George ormai emancipato dai problemi sentimentali così pesantemente sentiti nell’album Dark Horse, ed ecco perché il pezzo, pur se composto ben 8 anni prima, trova posto in questo disco così liberatorio e frizzante.
In ogni caso è significativa la frase del testo “There's just one thing I got to see That's the Lord got to keep him in sight”” in cui troviamo un George ormai sereno, che contrappone le stupide problematiche sentimentali con il vero scopo della vita. Ed è anche il primo dei vari riferimenti sparsi al Signore contenuti nelle liriche.
Il brano successivo è l’unico brano esclusivamente e direttamente mistico del disco, importante sotto due punti di vista.
Innanzitutto, con questo brano si inaugura quello che è stato già descritto come nuovo approccio di George al mystic rock (inteso quale particolare connotazione tematica delle canzoni), in base al quale viene riservata una o al massimo due canzoni a questa tematica così particolare; si tratta di un vero e proprio cambio di rotta di George che continuerà nei successivi lavori.
In secondo luogo, venendo allo stretto contenuto della canzone, notiamo come George comincia ad abbandonare gli stretti riferimenti all’induismo ed a Krishna per spostarsi verso una concezione unitaria e panenteistica di Dio (che lo porterà a toccare, in seguito, le tematiche ecologistiche). Il riferimento a Dio come”One”, infatti, viene inaugurato in questo disco e sarà portato avanti in altre canzoni (pensiamo a Life Itself con “you are the one”) o nella stessa simbologia utilizzata da George, che, lo ricordiamo bene, già aveva raffigurato nella copertina di Dark Horse i simboli delle maggiori religioni ed, in seguito, includerà in Brainwashed oltre al ben noto simbolo di OM anche il simbolo della croce cristiana.
In ogni caso, come è stato giustamente detto, con Dear One George ripercorre il solco di una concezione della musica di tipo orientale, soggettiva, intima e spirituale ed anche musicalmente percorre nuove sonorità (la Steel Guitar) e ritmiche diverse (qui siamo decisamente vicini al Calypso).
Il brano che segue Dear One è la stupenda Beautiful Girl, una canzone dichiaratamente di amore che George aveva composto, in realtà, durante il periodo dei Beatles, con estrema probabilità dedicandola alla prima moglie Pattie Boyd. Si tratta davvero di un brano molto semplice di George (con tipica struttura strofa-ritornello senza alcun middle-eight) in cui, forse, la sola annotazione a livello contenutistico può riguardare l’ormai avvenuto “rilassamento” sentimentale nei confronti della vicenda Pattie Boyd.
Infatti, l’aver ripescato un pezzo simile e, soprattutto, il non averlo destinato a dischi precedenti, rappresenta, a mio avviso, proprio l’avvenuto passaggio di maturità di George, che riesce, ormai, a prescindere dalle problematiche psicologiche e personali nella composizione dei propri brani, utilizzando, piuttosto, gli episodi di vita vissuta quale spunto per dettare insegnamenti o avanzare note critiche, soprattutto a livello sociale, ma (quasi) mai disdegnando il tono leggero ed ironico.
E proprio il brano successivo è un esempio di questo nuovo atteggiamento di George, che riesce ormai ad offrire critiche a livello sociale con un atteggiamento di maturità ed ironia.
Con This Song, che fu accompagnata da un video ironico, in cui George si offre quale imputato in una parodia di un processo per plagio con la partecipazione degli amatissimi Monty Python, George risponde a modo suo alla condanna per plagio per la canzone My Sweet Lord, che pur lo toccò nel profondo.
Il sound in stile funk afro-americano conferisce al pezzo un ritmo davvero splendido e la stessa armonia è articolata ed originale, come si addice a George.
Dal punto di vista contenutistico, George riprende il tema della critica alla freddezza ed ottusità del mondo del diritto che già aveva trattato in due precedenti brani: Sue me Sue you Blues, in cui viene ripresa, sempre in chiave ironica, la vicenda del processo contro Paul Mc Cartney a seguito dello scioglimento dei Beatles e The Lord Loves the One (That Loves the Lord), in cui la freddezza della legge, quale prodotto dell’umanità, è contrapposta alla grandezza del rapporto con Dio, pieno invece di misericordia e riconoscenza.
Anche in questo caso, ritroviamo un George più tagliente ed ironico, che sempre più spesso terrà i piedi per terra e si scaglierà, soprattutto in chiave ironica, contro aspetti della vita sociale caratterizzati da finzione ed apparenza (dal sistema della giustizia si passerà, ad esempio, alla critica ai mass media (con That’s the way it goes, Devil’s Radio e Brainwashed) o all’indifferenza verso il problema ecologico-nucleare (con Save the world) e cercherà di trarre lo spunto dalla realtà per parlare del Signore..
E, proprio a quest’ultimo riguardo, in This Song troviamo un passaggio molto significativo: “whithout you there’s no point to this song”, in cui George probabilmente si riferisce non tanto alla vicenda di My Sweet Lord (che pure costituì il motivo di questa canzone-parodia) ma al destino divino…you, come nella successiva Learning how to love you, potrebbe insomma costituire un esempio ulteriore dello “you” harrisoniano (ne parleremo più avanti, comunque).
This song è seguita da un brano originale di George, ma tirato fuori dal cassetto dell’epoca Beatles. See yourself, come ebbe a dire lo stesso George nella sua autobiografia, si riferiva, essenzialmente, all’episodio in cui Paul, mostrandosi insolitamente ingenuo, rilasciò ai giornalisti una dichiarazione circa l’uso dell’LSD, che pur Paul assunse tardivamente rispetto agli altri Beatles e, in fondo possiamo dirlo, dietro cattivo consiglio dei compagni di band.
La canzone è innanzitutto importante dal punto di vista musicale, dal momento che si tratta del primo vero pezzo basato quasi integralmente sul sintetizzatore. Strumento che, nel corso delle interviste che seguirono il clamore pubblicitario dell’uscita di Cloud Nine, George contestò senza riserve, stranamente dimenticandosi che era stato da lui ampiamente utilizzato in singole canzoni (tra le quali questa) e nell’intero disco Electronic Sound.
Dal punto di vista contenutistico, See Yourself mi sembra interessante per vari aspetti: innanzitutto ricorre il tema, caro a George, del senso di responsabilità, il cui inno, come ben sappiamo, è Run of the Mill. Torna, seppur fosse stata composta precedentemente, la velata critica al vecchio amico Paul, diventato, nella mente di George, l’emblema di un certo senso di inferiorità ed immaturità per averlo scoperto e portato alle stelle.
Se poi si tirano le somme, si può scoprire, con grande meraviglia, un intero filone di canzoni di George dedicate proprio a questo argomento: a partire da Run of the Mill, per arrivare a See yourself passando per Sue me Sue you Blues, Living in the Material World, Dark Horse e Simply Shady.
In See yourself troviamo, tuttavia, anche il consueto richiamo all’indulgenza nei rapporti interpersonali, che George, quasi come contraltare rispetto alla sua istintiva impulsività caratteriale, inaugurò nella stupenda Isn’t it pity e portò avanti con The Answer’s at the end (in cui isn’t it a pity è esplicitamente richiamata). Quando George afferma nella lirica: “it’s easier to criticize somebody else than to see yourself” o “it’s easier to hurt someone and make them cry…” richiama questa tematica con una citazione davero esplicita.
Ed il fatto che il bridge, in cui tali parole sono contenute, sia stato composto successivamente dimostra che il tema dell’indulgenza continuava ad interessare George, il quale aveva evidentemente instaurato una vera battaglia contro le proprie inclinazioni istintive ed ironiche.
Il lato B, come è noto, è una sorta di seconda apertura del disco. Dall’avvento del CD, che pone tutti i brani in serie si è perso questo senso del lato, che era proprio del vinile, ma ovviamente nel 1977 non esistevano i CD e così George pensa di iniziare la seconda parte del disco con un brano scoppiettante come l’inizio del lato A, sempre a sottolineare un ritrovato spirito gioioso.
It’s what you value è un altro brano che scorre sul solco dell’ironia e che, senza pretese di affrontare grandi tematiche, coglie lo spunto da una vicenda di vita quotidiana per offrire un brano in stile urban New York studio sound, secondo le direttive più o meno inconsce di Tom Scott e del pianista Richard Tee.
Lo spunto – dicevamo – per scrivere il brano derivò a George dalla pretesa del batterista Jim Keltner, il quale, in risposta all’invito di George a suonare con lui in tournee, chiese, in cambio del concerto, una mercedes 450.
George semplicemente gli risponde in tono un po’ caustico “questo è ciò che vali”, caro Jim e, a parte un richiamo nella seconda strofa alla folle macchina a 6 ruote di Elf Tyrrell che gareggiò in Formula Uno nella stagione 1976/77 e che colpì sicuramente la fantasia di George, da sempre grande appassionato di motori, non c’è molto altro.
Anche in questo caso, insomma, ci troviamo di fronte ad un brano in cui l’episodio concreto da cui nasce l’ispirazione non costituisce lo spunto per riflessioni introspettive o, meno ancora, mistiche. Un’altra conferma, se pure ce ne fosse stato bisogno, di una sorta di positività di George e di attenzione quasi esclusiva agli aspetti musicali.
Il brano che segue, True Love, è una cover di un brano di Cole Porter che i Beatles suonavano in quel di Amburgo.
George non usava spesso inserire cover nei suoi dischi, ma in questo caso, visto il periodo di particolare positività che attraversava, ritorna a questo vecchio standard, arrangiato con riffs dell’usuale chitarra slide ed un ottimo uso delle tastiere.
Anche in questo caso il brano, lanciato come single in Gran Bretagna, non sortì un gran successo, ma diede l’occasione a George di realizzare un video spiritoso.
Anche nella successiva Pure Smokey George omaggia un autore che lo aveva positivamente influenzato: Smokey Robinson e questa volta lo fa adottando lo stile soul che aveva caratterizzato il precedente disco Extra Texture.
Pure Smokey, come fa ben notare Simon Leng, risuona con il calore dell’affetto verso Smokey Robinson, con stupendi arrangiamenti al pianoforte e degli ottoni. E si tratta di un pezzo che, nelle sue sonorità, richiama molto da vicino la bellissima Far East Man, con una stupenda chitarra solista e ritmica, che suona caldissima ed in primo piano. E George dimostra di essere perfettamente in grado di suonare a meraviglia anche senza l’affezionato bottle neck, con uno stile, un tocco ed un gusto che non hanno nulla da invidiare ad Eric Clapton.
Il brano Pure Smokey, al di là delle osservazioni di carattere stilistico e musicale si presenta importante per il costante richiamo che fa George al Signore, ringraziandolo per aver donato all’umanità Smokey Robinson (“And I thank you Lord for givin’ us Pure Smokey”), così come fa donandoci ogni nuovo giorno.
Ecco, si tratta di un caso di gratitudine verso il Signore, che George ha ormai introiettato nella sua anima: come abbiamo già detto, George vive ormai il misticismo in una dimensione quotidiana e lo fa proprio in questo modo, inserendo, cioè, riferimenti al Signore in brani dedicati a tutt’altro argomento.
Ed è proprio quello che avviene nella stupenda e meravigliosa Crackerbox Palace, probabilmente il pezzo migliore o, comunque, più affascinante dell’album, dove George, analogamente ad altri meravigliosi brani (ad es. Run of the Mill), riesce a costruire liriche evocative metaforiche.
Crackerbox Palace nacque da uno spunto di vita vissuta, che George racconta in I Me Mine e che riteniamo importante ripercorrere.
George si trovava a Cannes in occasione del Midem Music Festivale del 1975. Nel corso di un ricevimento incontrò un signore, tale Mr. Grief, che, per qualche ignoto motivo, gli ricordava Lord Buckley, un attore teatrale attivo nel corso degli anni ’60 e che piaceva molto a George. Lord Buckley era un tipo decisamente eccentrico e viveva in una casa davvero microscopica, piccola proprio come un pacchetto di cracker…Crackerbox Palace, appunto.
Per una incredibile coincidenza, questo Mr. Grief era stato davvero manager di Lord Buckley per ben 18 anni.
Da questo incredibile episodio l’artista George trae lo spunto per la bellissima canzone, che, in pratica, è una vera e propria metafora della sua vita, in cui Crackerbox Palace assume il significato del mondo.
Il video che accompagnò la canzone (33&1/3 fu accompagnato da molti video e tutti in chiave ironica, anche qui ritroviamo i Monty Python) rende molto evidente questa metafora, mostrando la nascita di George (che esce da una culla portata da un’improbabile mamma), la pessima riuscita a livello scolastico (George vestito da scolaretto è uno spasso), il rapporto con il sesso, i guai con la legge, il periodo oscuro e, finalmente, l’unione tra amici nella cornice verde e festosa di Friar Park, nani di All things must pass compresi.
George vive un bellissimo periodo di vita, che gli consente di mostrare la sua casa ed il suo giardino, superando la sua ben nota riservatezza ed è questo il motivo di quella che Simon Leng ritiene una forte contraddizione tra senso della privacy di George e questo video in cui si “mette a nudo” tutta la sua casa. Semplicemente George ha ormai superato il suo legame con il passato da ex beatle e, potremmo dire, lo ha davvero sublimato.
Anche qui, quindi, ritroviamo due elementi tipici di 33&1/3: l’omaggio ad un artista che ha esercitato influenza nel suo passato (Lord Buckley come Smokey Robinson e Cole Porter) ed il richiamo “en passant” al significato che il Signore ha avuto nella sua vita: in questo senso la frase più significativa del testo è l’imperativo “know that the Lord is well and inside of you”.
Si tratta del solito invito a riconoscere dentro di sé la presenza di semi positivi, tema che è sempre stato un tema costante di George, presente addirittura – a livello embrionale – fin dai suoi esordi (già in Think for yourself scriveve “try thinking more and just from your own sake”, in It’s all too much “the more I go inside the more there is to see” senza contare l’inno di questa tematica, rappresentato da The Inner Light).
La bellezza di Crackerbox Palace, però, non è data soltanto dal suo contenuto (che la rende forse la canzone più ricca di significati dell’album), ma anche dagli aspetti musicali.
Si tratta, infatti, di un pezzo in un certo senso sperimentale, realizzato in stile di tipo jaunty reggae. Come dichiarò lo stesso George, grande estimatore di Bob Marley, uno dei suoi grandi sogni era quello di realizzare una canzone reggae, cosa che, probabilmente, gli riuscì con Crackerbox Palace, pur se certamente non si trattava (e non si sarebbe mai potuto trattare) del reggae tradizionale di Marley.
L’ultima canzone di Thirty Three è la stupenda e intimistica Learning how to love you, sicuramente tra le più belle del disco insieme al brano precedente, in quanto coniuga, al pari di quest’ultimo, una meravigliosa linea vocale e sequenza armonica con un testo profondissimo ed un’esecuzione davvero perfetta.
La ballata si inserisce appieno nel solco harrisoniano ed era considerata da George tra le sue migliori composizioni. Sotto il punto di vista armonico, al pari di Something, è costruita su un accordo che, ad ogni battuta, scende di un semitono rispetto alla figura dell’accordo base, ma, a differenza dell’illustre predecessore, essa è costituita da una linea vocale più articolata ed originale. Il middle eight, tra i migliori di George, riflette appieno l’erudizione musicale dell’autore, con un magistrale colore musicale, conferito da una “chicca”, un accordo di nona maggiore ed un arrangiamento in stile jazz, favorito da Tom Scott. L’assolo di chitarra, stupendo e “cantato”, completa questo gioiello musicale, cui l’avversione (o, peggio, l’indifferenza) immotivata della critica nei confronti di George impedirono il ben diverso lancio che avrebbe meritato.
Con riferimento alla critica, il brano è importante, in quanto sviluppa molti leitmotiv di George.
Innanzitutto c’è sicuramente il misticismo. A mio avviso sbaglia profondamente chi, al pari di Simon Leng, considera questo brano come una semplice canzone d’amore. Se l’armonia dolce e vellutata (al pari di Dark Sweet Lady) potrebbe farlo pensare, io credo che il tono della lirica sia tale da inserirsi a buon diritto nel solco dello “You” harrisoniano, sviluppato egregiamente in Extra Texture, in cui George si rivolge al Signore con parole di gratitudine e invocazione.
Non nego che il pezzo possa riferirsi anche all’amore terreno, ma, come abbiamo detto commentando I dig love, in George tra amore terreno e mistico non v’è differenza, semplicemente l’uno è immagine dell’altro.
Inoltre, nel testo George afferma l’altra grande tematica secondo cui è dentro di sé che può incontrarsi il divino. Ricordate quando in The Inner Light George cantava “Without going out of my door I can see averything on Earth, without looking out of my window I can see all the ways of Heaven”? O, per avvicinarci ad Extra Texture, quando in The Answer’s at the end George canta “And what’’s often in your heart is the hardest thing to reach”? Ebbene, tutte queste premesse trovano un completamento proprio in learning how to love you, dove appare evidente la cesura tra un mondo grossolano, materiale e grezzo (che George chiama The truth, cioè la dura realtà) e la meditazione in solitudine, che avvicina al Signore.
Ed infatti in George la solitudine non è mai disperazione ma fonte maieutica di apprendimento nella conoscenza del Signore.
Thirty Three è, dunque, davvero l’album della svolta per George: maturità e varietà negli aspetti musicali con sound secco e curato in stile afroamericano, l’abbandono dei dischi in stile mystic rock e la parallela assimilazione dello spirito religioso, che trova posto in riferimenti sparsi al Signore, all’Uno o allo “you”, toni più ironici e a volte sarcastici verso nuove tematiche, abbandono del problema sentimentale a fronte di un recupero ormai sereno di vecchie composizioni ed, infine, omaggio a muse ispiratrici del passato segnano il nuovo passo di un George, decisamente maturo ed ormai distaccato da turbamenti interiori.
Resta un’ombra: il vergognoso atteggiamento di indifferenza della critica del tempo e la paradossale assenza di un lavoro di tale levatura dagli scaffali dei negozi di dischi per decenni, finalmente, ma tardivamente, rieditato solo nel 2004. Ma a tutto questo, purtroppo, ci eravamo, nostro malgrado, abituati.

Riccardo Alemanno
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MessaggioInviato: Gio Ago 26, 2004 11:54 am    Oggetto: Rispondi citando

Bellissima recensione. Ma mi puoi spiegare un po' meglio quale era il problema tra George e Paul?

Ciao
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